E’ noto che gli Psicologi sono tra i professionisti con il reddito medio più basso: appena 14 mila euro annui (dati Enpap 2019).
Si potrebbe pensare che tale situazione sia legata al “valore” che la società attribuisce alla professione. Il concetto di “valore” di una professione è correlato soprattutto a due aspetti: alla considerazione o credibilità delle scienze e delle pratiche di riferimento e al “mandato sociale” che la professione riceve dalla società.
Dal punto di vista della considerazione, la storia della nascente psicologia italiana mostra come, dopo una grande spinta iniziale alla fine dell’Ottocento, legata molto anche alla nascita dello Stato unitario e alle speranze di rinascita che questo aveva suscitato, la psicologia trova sulla sua strada la tradizione culturale dominante di Croce e Gentile, che non considera la psicologia una vera scienza. La posizione dominante di questo approccio nell’università si lega con alcuni interessi medico-psichiatrici e relegherà la psicologia a mera “psicotecnica”. Dopo essere stata alla ribalta mondiale con il congresso internazionale del 1905, la psicologia italiana sarà progressivamente soffocata e durante il ventennio fascista in tutto il Paese rimarrà una unica superstite cattedra di psicologia.
Non a caso dobbiamo aspettare gli anni ’70 per avere i primi due corsi di laurea, peraltro emblematicamente confinati nel Magistero, una facoltà deputata storicamente alla formazione degli insegnanti. Oppure al travagliato percorso della regolamentazione della professione: venti anni di battaglie parlamentari per arrivare, grazie alla determinazione e coraggio di Adriano Ossicini, alla legge 56 del 1989.
Sarebbe interessante approfondire come questa legge non ha avuto nemici solo all’esterno della professione ma anche all’interno, in una robusta minoranza che sosteneva come quella psicologica fosse una competenza da fornire ad altre professioni piuttosto che una professione in se.
E’ vero che nel Servizio Sanitario Nazionale, nato con la riforma del 1978 (legge 833), gli psicologi, grazie alla battaglia vincente fatta dal neonato sindacato della categoria (Aupi) vennero riconosciuti come sanitari ed hanno avuto crescenti riconoscimenti. Non solo economici (negli anni ’80 lo stipendio di uno psicologo era pari o inferiore a quello di un infermiere) ma anche di giuridici, con la possibilità di dirigere non solo servizi di psicologia ma anche, sullo stesso piano dei medici, Strutture Complesse multidisciplinari quali Consultori, Sert, Centri di Salute Mentale, direzione di Dipartimenti, Distretti sanitari.
Ma se vediamo la “considerazione” in ambito universitario, che è il paradigma di riferimento scientifico disciplinare, troviamo che gli studi di psicologia vengono considerati molto meno impegnativi di quelli sanitari o scientifici. Infatti tutte le lauree vengono divise in fasce in relazione all’impegno formativo e professionalizzante, che determina il rapporto tra numero di studenti e docenti: più è alto questo rapporto e meno “pesante” viene considerata la laurea. Psicologia non solo è molto distante dalle lauree sanitarie e scientifiche in genere ma viene considerata addirittura meno impegnativa, solo per fare esempi, di Lettere, scienze del turismo o geografia.
Come si vede una situazione “schizofrenica”, che tuttavia non ha impedito alla professione di andare avanti di rafforzare il suo ruolo e “mandato sociale”. Basti pensare alla legge 3 del 2018 che sancisce che la professione psicologica, ovunque operi, svolge attività primaria di tutela della salute. Un riconoscimento con molte implicazioni, basti pensare che l’abuso di professione psicologica è sanzionato con pene molto più pensanti.
Le indagini promosse dall’Ordine nazionale su come gli italiani vedono gli psicologi mostrano una fiducia crescente: una ricerca presentata in occasione della Giornata Nazionale della Psicologia 2019 mostra come la metà degli italiani pensa che l’immagine dello psicologo sia migliorata negli ultimi 10 anni (solo l’8% la vede peggiorata) e 8 italiani su 10 pensano che la professione dello psicologo sia di fondamentale importanza.
Questo dato è confermato anche dalla “quota di mercato” della professione, cioè dal volume di affari desunto dal complesso dei redditi degli psicologi: in 20 anni è passato da 100 milioni ad un miliardo di euro (dati Enpap 2019). Una crescita che non ha paragoni tra le altre professioni. Questo vuol dire, come confermano anche le indagini fatte dal CNOP, che il numero degli italiani che si rivolgono allo psicologo è molto cresciuto negli anni.
Quindi, seppure tra luci ed ombre, la reputazione e il mandato sociale sono cresciuti in modo significativo.
Torna quindi la domanda iniziale sul reddito.
Per rispondere è necessario far riferimento ad un aspetto che, incredibilmente, è ben poco considerato: quello del rapporto tra domanda ed offerta.
In effetti se si va a leggere le analisi economiche reddituali delle attività professionali si vede che il primo e principale riferimento è proprio nella dinamica, fondamentale nelle economie di mercato, tra domanda ed offerta o disponibilità del bene, in questo caso le prestazioni psicologiche.
In Italia si continua a ripetere che ci sono pochi laureati, ma la verità è che questa carenza riguarda molti settori professionali, ma non certo la psicologia. Anche se l’attivazione di nuovi corsi di laurea andrebbe effettuata con riferimento al mercato, la fantasia di molte università ha aggirato questo ostacolo, con una moltiplicazione dell’offerta formativa che ha portato il nostro Paese ad avere il più alto numero di psicologi in relazione alla popolazione al mondo: uno ogni 500 abitanti, contro una media europea di uno psicologo ogni 1000 abitanti ed una media USA di uno psicologo ogni 2000.
In sostanza, agli psicologi italiani per avere lo stesso reddito medio dei loro colleghi europei o americani servirebbe che la domanda di psicologia in Italia fosse il doppio di quella degli altri Paesi europei o il quadruplo di quella USA.
E’ evidente che, per quanti sforzi si possano – e si debbano – fare questo obiettivo non è realistico.
Quindi è necessario che la Comunità professionale prenda consapevolezza che per aumentare il reddito, per aumentare l’occupabilità, non basta conquistare nuovi spazi, è necessario occuparsi seriamente dei numeri delle università.
Se si vuole dare la laurea in psicologia ai numeri attuali per i prossimi anni il numero di psicologi senza lavoro o costretti a fare altro è destinato ad aumentare. Questo perché, checche se ne dica, i numeri ci dicono che quasi tutti quelli che si laureano alla magistrale poi fanno l’esame di stato e si iscrivono all’Ordine. L’imbuto arriva dopo: quando si incontra una concorrenza fatta dai numeri dell’offerta. Una situazione difficile che spinge molti ad arrangiarsi ed accontentarsi di lavoretti sottopagati, con disagio personale e sofferenza di tutta la categoria.
Se non ci occupiamo seriamente del tema “offerta” oltre che del tema “domanda” e non lo facciamo anche dal punto di vista quantitativo, parlando ad esempio della programmazione degli accessi, rischiamo di trovarci con in titolo professionale che si svaluta progressivamente.
E’ incredibile come questo tema trovi poco spazio nelle riflessioni delle colleghe e dei colleghi, forse poco attenti o informati sulla situazione dei numeri della professione o magari rassegnati sul fatto che non si può fare nulla. Ma la legge 3 del 2018 che ci ha inquadrati tra le professioni sanitarie, tutte o quasi a numero programmato, apre nuove possibilità, che dobbiamo saper cogliere.
Che si debba fare tutto il possibile per far capire l’importanza della professione per la società, per aprire nuovi spazi occupazionali, è l’obiettivo numero uno. Dove vanno le nostre migliori energie.
Ma subito dopo dobbiamo mettere anche quest’altro obiettivo se vogliamo essere realisti ed uscire da alternative dicotomiche che non hanno senso.