Durante l’ultimo terremoto nel centro Italia abbiamo assistito al fatto che il disagio psicologico, e la richiesta di aiuto, sono aumentati progressivamente nel periodo successivo, a distanza di mesi e anni.
Un fenomeno che non stupisce e che è stato studiato in tutte le principali emergenze degli ultimi anni: nell’uragano Katrina, che ha devastato il sud degli USA nel 2005, a distanza di anni, si sono registrati indici anomali di disturbi psichici e malattie somatiche.
Questo perché le situazioni di emergenza producono sempre anche delle emergenze sul piano psicologico, nei singoli e nella collettività.
Nel gergo si chiama “l’onda lunga” e mostra gli effetti, ampiamente conosciuti, dello stress sulla salute. L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2013 ha emanato delle “Linee Guida” per la gestione dello stress in queste emergenze (WHO Guidelines for the Management of Conditions Specifically Related to Stress).
Lo scopo principale di queste indicazioni non è solo quello di raccomandare gli interventi psicologici più efficaci ma di assicurare due criteri: la priorità ai casi più esposti e la tempestività degli interventi stessi. L’aiuto psicologico risponde in questi casi ad una regola temporale: più è tempestivo e mirato, più risulta efficace e protettivo per il futuro.
Ora è evidente che organizzare l’aiuto per un territorio e una popolazione circoscritta per quanto difficile è molto più facile che farlo per una intera nazione che si trova in una emergenza generalizzata. Ma questo non vuol certo dire che sia inutile o impossibile.
Esistono studi che ci dicono come muoverci: usare la comunicazione istituzionale ed i grandi contenitori sociali (sanità, scuola, organizzazioni lavorative, welfare) per campagne di promozione della resilienza, attivando contestualmente reti di ascolto e sostegno psicologico. Capendo che gli interventi psicologici camminano sul doppio binario: collettivo/individuale e promozione/sostegno.
Numeri telefonici di primo aiuto e orientamento hanno molto più senso dentro questa logica dove l’emergenza si coniuga con strategie più strutturate, utili per il presente e per il dopo. Altrimenti rischiano di essere cattedrali nel deserto.
Anche la proposta di “voucher” per l’accesso gratuito alle prestazioni psicologiche alle categorie più esposte ha senso dentro questo scenario, perché consente l’incontro immediato e flessibile tra un bisogno e la risposta, anche se ha un orizzonte più limitato nel tempo.
Di fatto il Sistema Paese ha sinora dimostrato di non saper affrontare il problema. Si è parlato molto ma, rispetto alle proposte concrete fatte, siamo alla situazione di 8 mesi fa. Perché la sofferenza psicologica viene vista erroneamente come un problema privato delle singole persone. Ma quando queste persone sono milioni e il livello di disagio è troppo grande allora diviene una grande problema sociale oltre che sanitario, che si manifesta in tante forme diverse e tutte molto negative, per i singoli, le comunità e l’intera società.
Al 19 ottobre il Centro Studi CNOP ha rilevato che il 51% della popolazione ha un livello di stress psicologico tra 70 e 100 su 100. Un livello analogo a quello del lockdown ma con caratteristiche molto peggiori, allora dominava la componente ansiosa, sorretta da una prospettiva, oggi rabbia, depressione e forte disorientamento.
Occorre superare l’idea che su questo non si possa far nulla di valido e concreto, che non ci siano strategie di sistema, e mettere invece in campo programmi psicologici che hanno alle spalle documentati studi di efficacia e costo-benefici. A partire dalle categorie più a rischio, come i malati o ex malati Covid, le persone in isolamento, i parenti delle vittime, gli operatori sanitari più esposti.
Sarebbe ora che questo tema venisse affrontato seriamente e che le autorità si avvalessero della consulenza di chi ha le competenze specifiche: non sarebbe ora per esempio che al CTS ci fosse anche la voce della Psicologia?