La storia delle professioni ci insegna che esistono percorsi evolutivi e tappe cruciali, che possono fare la differenza sugli sviluppi e le direzioni future e determinare evoluzioni positive o negative.
A 50 anni dalla nascita della laurea in Psicologia e a 30 anni dalla legge 56/89 che ha regolato la professione la “Comunità professionale” è matura per una riflessione e per prendere in mano con più decisione e consapevolezza il suo presente e il suo futuro.
Abbiamo intitolato questo documento “Manifesto” perché non è ancora un programma vero e proprio, che vogliamo definire nell’ambito di un percorso condiviso, ma è una dichiarazione di principi, di intenti, di obiettivi, soprattutto una “visione della professione” che vogliamo partecipare e condividere.
Esistono già tante realtà aggregative della professione, che hanno soprattutto obiettivi di carattere professionale o scientifico, la Federazione vuole invece colmare quello che molti avvertono come un vuoto ed una necessità: sviluppare i temi comuni di politica professionale. E farlo con lo stile che dovrebbe sempre caratterizzare gli Psicologi: sereno, concreto, assertivo, costruttivo, rispettoso dell’altro. Che non evita il conflitto quando serve ma non lo pratica come stile e non lo utilizza come strategia.
La professione in Italia ha avuto uno sviluppo che in pochi anni ci ha portato da 2 a 41 sedi universitarie, dai 20 mila iscritti all’Ordine degli anni ’90 agli attuali 115 mila. Una crescita così imponente – ed unica tra tutte le professioni – che ha creato non pochi problemi occupazionali e di inserimento nel mercato del lavoro. Se infatti la Psicologia come professione ha conquistato importanti quote di mercato (da 1 milione ad un miliardo di euro in vent’anni), la necessità di dividere tale quota per il numero di Psicologi abilitati fa precipitare il reddito pro-capite agli ultimi posti.
Si crea così una sorta di paradosso tra performance della professione e performance dei singoli, tra iscrizione all’Ordine ed effettivo esercizio professionale che genera una diffusa sofferenza nei singoli e un danno a tutta la categoria.
La nostra idea è che il riconoscimento di professione sanitaria debba da un lato consentirci di creare un percorso universitario più professionalizzante, con accessi programmati e laurea abilitante e dall’altro consentire una presenza più puntuale, diffusa e riconosciuta della professione nei contesti della salute, della scuola, del welfare, del lavoro e in molti altri ambiti dove si può (e si deve) sviluppare la professione, come la giustizia, lo sport, la comunicazione….
Lo Psicologo, al di là del settore (o dei settori) ove opera è portatore di un modello di salute e di intervento che deve essere valorizzato sia all’interno che all’esterno della Comunità professionale, perché è radicato nelle evidenze scientifiche, nelle esperienze e nei bisogni sociali.
La salute è una condizione dinamica di equilibrio interno e tra persona e contesto e la dimensione psichica è un modulatore fondamentale di tale equilibrio: nel modo di leggere le cose e la vita nel suo complesso, di affrontarle/a, di reagire, di recuperare. La salute è quindi inestricabilmente legata al “benessere” e alle “qualità e risorse psicologiche” della persona e del contesto.
Ogni politica di promozione, prevenzione e cura della salute non può quindi prescindere dalle “life skills”, cioè dalle abilità psicologiche di affrontare la vita, e non può essere confinata al solo settore sanitario. In tutti i contesti sociali più significativi – la scuola, il welfare, il lavoro, lo sport, la formazione, l’organizzazione della vita sociale, degli spazi urbani e di vita, l’ambiente – si incide sulla salute e si deve “fare salute”.
In questa visione, dove la Psicologia è sia una chiave di lettura delle situazioni e dei contesti e di ascolto e di comprensione dei bisogni che uno strumento per attivare risposte ed azioni appropriate ed efficaci a diversi livelli (dal singolo all’organizzazione alla società) in dialogo attivo ma non subordinato con le altre scienze e professioni, la professione psicologica assume un ruolo generale – ma non generico – di “facilitazione” alla vita nella sua globalità e nei diversi contesti, di promozione del “potenziale umano”.
Una vita divenuta complessa e spesso complicata, dominata dallo stress e da una condizione diffusa di impoverimento e disagio psicologico, come tutti i dati mostrano. Che si traduce in malessere individuale e sociale, in aumento di rabbia, violenza, senso di solitudine, difficoltà relazionali, in disturbi che si manifestano a livello psichico e fisico, in malattie, con un costo crescente ed immenso per i singoli e le società, tale da compromettere il futuro della convivenza civile.
Come denuncia il World Economic Forum si tratta di una emergenza per l’umanità, accanto a quella climatica e alla dipendenza tecnologica, che sottolinea come lo stato psicologico delle persone finisce per diventare un problema sociale perché produce conseguenze a diversi livelli, una società di “soli e arrabbiati” è compromessa nelle sue basi, a cominciare dai rischi per la democrazia poiché la libertà non può che emergere da un progetto comune e condiviso.
Ecco quindi che la professione psicologica assume un ruolo sociale che va molto al di là della dimensione tradizionale e questo richiede sia uno sforzo di rappresentazione verso le Istituzioni e gli stakeholder in generale che una convergenza di riflessioni all’interno della Comunità professionale, affinché sia in grado di attrezzarsi e proporsi efficacemente in questo ruolo.
Tutto ciò richiede chiarezza ma anche onestà intellettuale, perché la professione ha bisogno di capacità di affrontare le questioni generali, i nodi di fondo che ne condizionano il presente ed il futuro, di essere credibile all’esterno, verso i cittadini ed i decisori politici ed istituzionali. Non ha bisogno che si alimenti la confusione, lo smarrimento di tante Colleghe e Colleghi di fronte alle difficoltà del mercato del lavoro, che si costruisca il consenso con modalità analoghe a quelle della peggiore politica, clientelismo e demonizzazione dell’altro visto come avversario se non nemico.
La maturità di una Comunità si misura dalla sua capacità di individuare gli “interessi comuni” che vanno al di là di quelli singoli o di parti, ma che sono decisivi per le sorti di tutti, e di saperlo fare con realismo e competenza, in modo non velleitario, vittimistico o autoreferenziale.
La demagogia serve a costruire consenso ma non certo a risolvere i problemi. Ci serve il linguaggio della chiarezza, la lucidità e l’onestà delle analisi, la capacità del confronto e la competenza della proposta.
La Federazione non vuole conquistare “quote di mercato” all’interno della professione ma una capacità ed uno stile nuovo di analisi e di confronto. Perché siamo in un tempo e in uno spazio decisivo.
Dobbiamo dirci quanti laureati servono al Paese, che tipo di laurea e di percorsi formativi vogliamo, dobbiamo implementare l’azione delle società scientifiche perché le evidenze psicologiche si affermino, dobbiamo sostenere l’azione dell’Ordine come momento di rappresentanza e promozione della professione, il ruolo della Cassa come sostegno economico per la professione, contare nel sindacato per rappresentare le nostre ragioni.
Sostenere la logica del confronto e della collaborazione su obiettivi comuni per essere più forti e per analizzare e valorizzare la funzione della nostra professione nella società attuale piuttosto che vedere la professione come un mezzo.