Introduzione
Negli ultimi anni abbiamo assistito a numerosi, troppi, fatti che hanno visto molte donne diventare vittime di una violenza rivolta a loro in modo esplicito, spesso esclusivo, a volte distruttivamente letale, da parte di uomini a loro conosciuti. Nel 2020 queste vittime sono state in Italia 73; nel 2021 le vittime[1] sono già diventate 7.
La violenza contro le donne, quella che si verifica nelle relazioni familiari e intime, è il focus di questo articolo.
La Federazione Italiani Psicologi (FIP) è uno spazio importante in cui confrontarsi anche su queste tematiche su cui si deve e si può fare molto. I contributi scientifici che la psicologia sta offrendo in questo ambito sono essenziali per sensibilizzare il mondo verso la necessità di cambiamenti radicali e verso l’eliminazione di quelle condizioni che continuano a creare sofferenza e disuguaglianza.
Relazioni violente
Partire dal concetto di relazione è importante: la psicologia evidenzia come la vita delle persone sia basata sulla costruzione di legami con altre persone. In altre parole la vita è fatta di incontri dai quali nascono collaborazioni, scambi e relazioni di diversa natura e con scopi differenti.
Le relazioni intime sono quelle che richiamano, per definizione, un elevato grado di coinvolgimento affettivo e psicologico. Un rapporto sano e soddisfacente consente agli individui di raggiungere un migliore benessere in molteplici ambiti della vita, correlato ad una più adeguata capacità di gestione delle difficoltà, di adattamento e di funzionamento psicosociale. Al contrario, una relazione disturbata, patologica, frustrante e particolarmente litigiosa rischia di condurre ad un peggioramento delle condizioni di vita, fungendo da terreno fertile per l’incentivazione di comportamenti aggressivi, maltrattanti e abusanti e, nei casi più estremi, violenti e letali.
L’Intimate Partner Violence (IPV) è una forma di violenza nelle relazioni intime, che può essere intesa anche in termini di violenza di coppia (Zara, Veggi, & Gino, 2020) e comprende molteplici forme di abuso e manipolazione, aggressione, maltrattamento o violenza perpetrate da un partner con il quale la vittima ha o ha avuto una relazione affettiva o intima (Gino, Freilone, Biondi, Ceccarelli, Veggi, & Zara, 2019; Krebs, Breiding, Browne, & Warner, 2011).
L’IPV colpisce in modo sproporzionato le donne e ha profonde implicazioni sul loro benessere psicologico, sessuale, relazionale, riproduttivo, professionale e sulla loro autonomia psicologica (Stöckl, Devries, Rotstein, Abrahams, Campbell, Watts, et al., 2013). Colpisce persone di diversa provenienza demografica e geografica, culturale e sociale, persone anche molto giovani ed è caratterizzata da una forte continuità nel tempo. Non è raro che l’IPV diventi anche una violenza composta, quando connotata da offese di natura fisica, economica, psicologica e sessuale; quando sono presenti dei figli questa violenza si trasforma in una violenza pervasiva rivolta all’intero nucleo familiare. Vista la forma e la natura, questa violenza non è mai solo un problema individuale o «un affare di famiglia»; è innegabilmente un problema di salute pubblica (Campbell, 2002; WHO, 2017) di cui le Istituzioni devono occuparsi direttamente, di concerto con le strutture dedicate alla ricerca scientifica e con gli enti deputati alla prevenzione e alla tutela delle vittime. È anche inevitabilmente un problema sociale e culturale in cui ognuno di noi come persona, come cittadina e cittadino, come professionista, è responsabilmente chiamato ad intervenire.
La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica[2] (Istanbul 11 maggio 2011, firmata per l’Italia il 27 settembre 2012 e ratificata il 10 settembre 2013) riconosce in modo specifico, all’art. 3, che «la violenza domestica designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima».
Il clima di sensibilizzazione nazionale e internazionale per mettere in moto azioni legislative volte all’eliminazione della violenza contro le donne e della violenza domestica sembra, però, ancora in attesa di un’effettiva emancipazione dall’ancoraggio ideologico che vede nell’inasprimento delle pene per i responsabili[3] la prima immediata soluzione, senza considerare che questa non può essere realizzata senza prevedere poltiche di intervento preventive, di sostegno alle persone offese, e di trattamento specializzato degli autori di reato, basate sull’evidenza scientifica e che possano agire sul lungo termine. Incidere significativamente su questi problemi significa lavorare per evitare il rischio di continuità violenta e di recidiva: la letteratura scientifica è pressoché unanima nell’evidenziare il significativo «numero oscuro» di queste forme di violenza, che altro non significa se non una continuità, silente e indisturbata, della violenza intima, di coppia e familiare, per lunghi periodi e su diverse vittime.
Uno sguardo numericamente sensibile
Nonostante sia difficile arrivare ad un’accurata stima dell’estensione e della frequenza di questo tipo di violenza, la diffusione del problema è allarmante nei diversi Paesi del mondo (Abrahams, Devries, Watts, Pallitto, Petzold, Shamu, et al., 2014; Stöckl et al., 2013).
Un report delle Nazioni Unite sul Global Homicide (2018)[4] ha evidenziato in modo incontrovertibile che le donne sono vittime di attacchi intenzionali mortali da parte di uomini conosciuti, in quanto membri della loro famiglia o partner con i quali le donne erano in una relazione intima al momento dell’omicidio. Nonostante queste siano quelle situazioni in cui la somma dei numeri non potrà mai significare la complessità e gravità del problema sotto osservazione, sembra quantomeno doveroso dare un senso psicologico e umano a questi numeri.
Nel 2017, 87.000 donne nel mondo sono state uccise intenzionalmente. Più della metà (n = 50.000; 58%) è stata uccisa da partner intimi o membri della famiglia: questo significa che al giorno 137 donne nel mondo sono state uccise all’interno di una relazione affettiva. Disaggregando i dati per tipologia di relazione affettiva, è emerso che più di un terzo (n = 30.000) di queste donne è stato ucciso dall’attuale compagno o da un ex partner.
Andando al di là di un calcolo puramente statistico, questo numeri suggeriscono che la violenza contro le donne raramente si verifica in un contesto anonimo, in cui la persona offesa è una vittima fungibile della violenza.
Questi risultati non si discostano da quanto emerso, su scala nazionale, dal VII Rapporto Eures sul femminicidio in Italia[5]. Nei primi dieci mesi del 2020 le donne vittime di omicidio sono state 91, una ogni tre giorni, a fronte di 99 donne uccise nello stesso periodo del 2019, evidenziando una stabilità nel numero dei femminicidi commessi in famiglia e all’interno di una relazione intima. Quello che sembra importante sottolineare è che nel 2019 in 1 caso su 2 il femminicidio all’interno di una relazione intima era stato anticipato da episodi (spesso ripetuti) di maltrattamenti. L’incidenza dei maltrattamenti pregressi nei femminicidi di coppia è stata registrata nel 50% dei casi in cui le donne vittime avevano già subìto maltrattamenti pregressi[6]. Un dato questo che sta ad indicare come l’escalation omicidaria non sembri emergere all’improvviso, tutt’altro; sembra per l’appunto essere preceduta da forme diversificate di violenze pregresse e progressive.
A completamento di questa breve descrizione sembra utile dare uno sguardo a cosa si è verificato, nel 2020, durante le diverse fasi di lockdown: i casi di femminicidio in Italia sono stati in 4 volte su 5 per mano del convivente della vittima e questo è in linea con quanto successo anche in altri Paesi del mondo[7]. Pertanto, di fronte ad un’emergenza sanitaria che ha sempre richiesto strategie di distanziamento fisico per tutelarsi dal rischio di contagio Covid-19, lo spazio domestico si è forzatamente ristretto obbligando le persone ad una convivenza totale, quotidiana, pesante e altrettanto ristretta. Secondo questo VII Rapporto Eures i casi di femmincidio durante il lockdown sono, infatti, triplicati.
Vittime infungibili
Queste statistiche hanno ampiamente confermato che nella maggior parte dei casi di IPV la persona offesa – la donna – è la vittima preferenziale, prescelta, infungibile, che diventa il target disperante dell’espressione distruttiva del compagno. Non è pertanto possibile non tener conto della dimensione relazionale dentro cui nasce, si manifesta e continua la violenza, perché è questo che, paradossalmente, rende questa forma di violenza prevenibile.
La ricerca in ambito psico-criminologico e clinico evidenzia che la probabilità di diventare vittime di violenza non è equamente distribuita nella popolazione. I fattori vittimogeni costituiscono quella serie di variabili individuali e sociali che facilitano atteggiamenti, decisioni e agìti offensivi e delittuosi e che favoriscono il verificarsi di episodi, spesso ripetuti nel tempo, di abuso e violenza, spingendo da un lato l’autore di reato a commetterlo e dall’altro accentuando la «visibilità e vulnerabilità» della vittima. Questi fattori giocano un ruolo nella dinamica abusante e violenta e sembrano tanto più rilevanti quanto maggiore è la forza della relazione tra vittima e aggressore ed elevata l’intensità affettiva coinvolta.
A creare le premesse per l’esordio di IPV, e a condizionare la sua evoluzione, è soprattutto il modo in cui determinati fattori di rischio e di vulnerabilità si combinano tra loro (Capaldi, Knoble, Shortt, & Kim, 2012) all’interno di una relazione originariamente voluta, desiderata o anche solo perversamente immaginata (Belfrage & Strand, 2008; McCarthy & Stagg, 2020), per poi diventare relazione imposta e subìta, condizionando la natura, la durata, l’involuzione violenta e il fallimento della stessa (Campbell, Greeson, Bybee, & Raja, 2008).
Questo approccio permette di uscire da una contrapposizione riduzionistica tra «vittima ideale» e «aggressore ideale» per arrivare a parlare di «vittima reale» e «aggressore reale». È verso queste realtà che abbiamo una responsabilità sociale e professionale, rispettivamente di tutela e giustizia, e trattamentale-preventiva.
Christie (1986) aveva individuato tre caratteristiche necessarie per assegnare la connotazione di «ideale» al concetto di vittima: debolezza (e.g. malattia, disabilità, anzianità, essere donne o bambini); rispettabilità e irreprensibilità (e.g. svolgere ruoli socialmente approvati e avere uno stile di vita convenzionale). A queste aveva aggiunto altre due caratteristiche: una riferita all’aggressore ovvero la sua indifendibilità, l’altra legata all’assenza di relazione, ovvero all’estraneità completa tra aggressore e vittima.
Queste caratteristiche difficilmente possono essere applicate alla natura dell’IPV. Pur non essendoci alcun dubbio sul fatto che l’offesa di violenza è inaccettabile, sempre e comunque, anche quando la persona è una donna forte, determinata e resiliente; quando non rientra nei canoni sociali della convenzionalità; quando si sa difendere; quando conosce intimamente il suo aggressore, sembra doveroso riconoscere che comprendere l’IPV significa partire proprio dalla non estraneità tra la vittima e il suo maltrattante, perché è proprio la dinamica relazionale che diventa il presupposto della violenza, e non la conseguenza della stessa.
Si parla di una dinamica interattiva, a cui il partner del maltrattante «partecipa». È questa situazione che vincola la donna all’uomo, perché come suggerisce Filippini (2012, p. 72) è «attraverso le strategie di coping che tale situazione le impone di adottare» che la donna scivola in un isolamento che la rende incapace di «pensarsi senza» quell’uomo, spostando così il limite di quello che diventa possibile e consentito o che si è disposti ad accettare.
Perché le relazioni maltrattanti e violente durano a lungo?
L’IPV implica l’annientamento dell’altro sia come persona sia come partner (Baldry et al., 2015); intravede nel controllo il canale privilegiato di interazione interpersonale (Gino et al., 2018; McCarthy, Mehta, & Haberland, 2018); coinvolge meccanismi psicologici per esternalizzare l’offesa, oltre che per concettualizzarla (Merzagora-Betsos, 2009; Stefanile et al., 2018). Filippini (2012, pp. 37-38) fa un’analisi interessante degli uomini che maltrattano le donne e agganciandosi concettualmente a diversi lavori di impostazione psicodinamica, evidenzia come nell’IPV “non sia necessario distruggere la vittima, l’importante è che essa sia a disposizione, che il partner ne abbia il controllo e che possa esercitare il potere su di lei”.
L’attenzione scientifica, sociale e clinica deve pertanto essere rivolta alla psicopatologia relazionale o meglio, per usare le parole di Filippini (2012), alla perversione relazionale che mette in risalto la dimensione intersoggettiva inevitabilmente esistente tra vittima e perpetratore. La vittima viene depauperata della sua autonomia; la sua identità viene forgiata di caratteri rispondenti ai bisogni del suo abusante; il suo spazio relazionale viene svuotato e reso isolato.
I dati empirici sull’IPV sono concordi nell’evidenziare come queste relazioni siano effettivamente durature.
In un’analisi specifica relativa allo studio SORAT[8] e rivolta a 137 casi di violenza combinata, in cui erano contemplati maltrattamenti in famiglia, violenza di coppia e violenza sessuale, nei confronti di una donna, si è riscontrata una durata media della relazione intima e maltrattante di 9 anni.
«Una moglie vittima di violenza fisica, psicologica, economica e sessuale racconta di non essere mai riuscita a lasciare il marito maltrattante con il quale si era legata dall’età di 23 anni, perché a fronte di un’infanzia particolarmente dolorosa, cresciuta sotto la tutela dei servzi sociali, aveva paura di rimanere sola e di non farcela. Pertanto è rimasta per oltre 8 anni in una relazione patologica in cui anche i figli venivano costretti a subire e ad assistere ad ogni forma di insulti e maltrattamenti, e allo stesso tempo ad essere istruiti sul cosa raccontare agli assitenti sociali e agli insegnanti quando arrivavano a scuola con i lividi causati dai bastoni con i quali loro e la mamma venivano picchiati».
Il modo con cui diversi uomini coinvolti nello studio SORAT hanno descritto la relazione con la persona offesa è esemplificativo del clima relazionale in cui la violenza si verificva e perdurava. Non si dimentichino le parole tutt’ora contemporanee di Virginia Woolf, quando metaforicamente aveva dichiarato che “gli occhi degli altri sono le nostre prigioni, i loro pensieri le nostre gabbie[9]”.
Incastri violenti
Per contestualizzare questi aspetti all’interno di quello che può essere la relazione patologica, si riportano alcune frasi che uomini, condannati per diverse forme di violenza, hanno utilizzato per descrivere la condizione relazionale o la donna che avevano abusato, violentato e maltrattato. Le descrizioni sono state decontestualizzate e rese completamente anonime, senza però perdere lo spessore violento che ha caratterizzato gli stili relazionali di queste storie violente.
«Era un amore stressante […], era una cosa pesante, non era amore sincero e vero» (riferito alla relazione con la sua prima fidanzata che ha maltrattato per anni e che poi ha abusato sessualmente). L’uomo non voleva che lei usasse il cellulare e neanche internet. La donna voleva lasciarlo ma lui la seguiva e la tempestava di telefonate. Era arrivato anche a usare violenza fisica (schiaffi e pugni) su di lei. La durata della relazione è stata di 4 anni, e la violenza sarebbe emersa dopo circa 18 mesi dall’inizio della loro relazione.
«Sono geloso di carattere, quello che è mio è mio, non deve essere condiviso con altri» (riferito alla donna con la quale aveva una relazione e che aveva maltrattato in diverse occasioni).
«Non era la questione della minigonna […]. Era proprio il fatto di fare questo (agìre in modo sessualmente aggressivo e violento) e vedere come ci si sente dopo. Cioè io forse facevo questo per sentirmi tra virgolette dominante, uomo […]» (riferito alle donne che aggrediva e violentava).
«Sei un’incapace e necessiti di essere raddrizzata» (riferito alla compagna la cui relazione è durata oltre 8 anni). Per fare questo l’uomo, condannato per maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale contro la compagna e omicidio, teneva la donna in uno stato di costante assoggettamento, rendendola incapace di reagire, anche solo verbalmente. Inoltre per spaventarla teneva sempre un coltello sul comodino ed un laccio sotto il cuscino, divertendosi a terrorizzarla. La aggrediva verbalmente e fisicamente con schiaffi, pugni, calci e lanci di oggetti di varia natura (padelle, caffettiere e simili). Inoltre l’aggrediva con coltelli e cacciaviti, con il bastone della scopa e le pistole che deteneva in casa. La donna si era innamorata dell’uomo perché all’inizio della relazione «lui era gentile», ma poi quasi subito (a distanza di pochi mesi) l’uomo ha rivelato il suo carattere aggressivo, violento e antisociale (questo è quello che emerso dal racconto della vittima).
«Sei una […], non servi a niente». Questi erano alcuni degli epiteti con i quali l’uomo apostrofava la moglie anche davanti alle figlie e in pubblico. Dal colloquio con l’autore di reato condannato ad una pena detentiva per maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale, è emerso che il rapporto di matrimonio durato molti anni si era terribilmente appesantito dalla violenza. Lanciava costantemente contro la moglie oggetti e le consentiva di uscire solo per andare al lavoro, pedinandola e controllandola negli spostamenti. Le vietava di usare il telefono e di parlare con altri uomini. L’aveva costretta ad interrompere tutti i rapporti di amicizia e l’accusava constantemente di tradirlo. Abitualmente la minacciava di uccidrla anche davanti alle figlie, puntandole un coltello alla gola. Perseguitato dall’idea ossessiva di essere stato tradito, aveva obbligato la figlia al test del DNA per verificarne la paternità.
Un uomo condannato per violenza sessuale nei confronti di una adolescente, racconta il suo rapporto con le donne. Si tratta di un uomo sposato che nega la violenza agìta e racconta di essere in carcere per le seguenti ragioni: «Io sono qua perché vivevo nel modo sbagliato, ero infedele al 100%. Per me era una cosa normale, era naturale essere infedele a mia moglie. […]. Se non ti scoprono non fai del male a nessuno. […]. Vedevo una donna e già stavo pensando a che possibilità avevo di stare con lei, di conquistarla. La mia teoria era che su 10 almeno 8 ci stavano; e allora stava dentro alla statistica. Non avevo nessun sentimento. Il mio obiettivo non era solo portarmela a letto, era farla innamorare di me. […]. E questo è peggio». La moglie continua a stare con lui.
In questo clima di appiattimento esistenziale, due aspetti sembrano di particolare rilevanza per dare senso al come e al perché dell’IPV: la natura intima della violenza e la sua durata.
In uno studio condotto su un campione di 279 donne (età media 46.32 ± 21.13 SD) uccise a Torino e zona metropolitana, tra il 1970 e il 2018, da 263 uomini (età media 43.38 ± 17.02 SD), i risultati mostrano che l’89.1% delle vittime coinvolte nel campione (n = 244) aveva un rapporto di conoscenza con l’autore di reato e che il 60.2% di queste (n = 165) era in una relazione intima o familiare con il perpetratore al momento del femminicidio (Zara, et al., 2020). In media la durata della relazione o del rapporto di conoscenza era di 14 anni, anche se nei femminicidi contemporanei (dal 1996 al 2018) la durata della relazione era significativamente più lunga[10], di quasi 20 anni, rispetto alla durata delle relazioni nei femminicidi risalenti nel tempo (1970-1995) che in media erano di circa 11 anni.
Quello che sembra emergere da studi come questo (Gino et al., 2019) è che, sebbene le donne siano state uccise di meno rispetto al passato, esse siano state nondimeno costrette a subire forme durature di abusi nascosti e sottaciuti all’interno delle relazioni interpersonali ed intime. Certamente ulteriori ricerche sono necessarie per verificare se ci si trovi di fronte ad una trasformazione nelle modalità di espressione della violenza interpersonale, con un passaggio da manifestazioni di forza più dirette, aggressive e letali nei periodi meno recenti, quando ancora era accordata un’attenzione preventiva inferiore al fenomeno, specie quando erano presenti segnali mascherati e le strategie adottate erano infide, indirette, manipolatorie e volte ad evitarne il disvelamento.
Se è vero che le donne vengono uccise meno, ma subiscono violenze nel privato della loro relazione intima, in quanto continua ad essere prevalente, oggi come 50 anni fa, una cultura del controllo e del dominio, gli sforzi delle Istituzioni dovrebbero essere coordinati al fine di riconoscere i fattori alla base dell’IPV nelle sue molteplici configurazioni e valutare il rischio differenziale alla base dell’IPV e della sua escalation peggiorativa in femminicidio (Sutton & Dawson, 2018).
L’evidenza scientifica è pressoché concorde sul fatto che in presenza di una relazione di vicinanza intima tra vittima e autore di reato, le probabilità della prima di subire overkilling, ovvero di essere uccisa in modo intensamente violento e con modalità particolarmente efferate,sono significativamente maggiori rispetto a quando tra vittima e autore di reato non esiste una conoscenza affettiva profonda o quando vi è estraneità. Le motivazioni alla base di queste forme di violenza vanno ricercate prevalentemente in questioni di imposizione del proprio potere sull’altra persone, di dominio, di gelosia morbosa e di tentativi disperanti di privazione della libertà da parte dell’uomo nei confronti della donna in cui la litigiosità (contentiousness) sembra giocare un ruolo dominante nell’escalation violenta.
La litigiosità rimanda agli aspetti emotivamente e psicologicamente logoranti di una relazione, perché pervasivi e condizionanti in toto la qualità della stessa, rimandando ad una condizione di malessere relazionale, in cui ogni aspetto dello stare insieme è problematico ed è vissuto come tale. Vista in questi termini, la litigiosità rappresenta la componente distruttiva, disfunzionale e peggiorativa del conflitto, in quanto non è altro che rabbia agìta: la litigiosità costituisce il presupposto della relazione e il suo perdurare.
Un esempio è ritrovabile in uomini non in grado, nel rapporto di coppia, di tollerare la frustrazione e la perdita dell’approvazione senza rabbia, motivo per cui la litigiosità diventa uno dei presupposti alla base della distruttività relazionale. In molti casi la decisione della donna di dare fine alla relazione diventa il fattore scatenante l’esternalizzazione violenta.
La ferita narcisistica del maltrattante alimenta reazioni impulsive violente già nell’immediatezza della separazione e in risposta al tentativo di rottura del rapporto da parte della donna; in altri casi invece il maltrattante reagisce alla separazione solo a distanza di tempo. In queste situazioni quello che diventa un ulteriore fattore di rischio è l’uso del tempo per ideare piani d’attacco repentini e a sorpresa, anche se mirati e precisi, oppure attacchi travestiti da forme di richieste di perdono, da tentativi di un riavvicinamento almeno amicale, per poi diventare forme di contatto sempre più invasive, di fronte alle quali è difficile difendersi e trovarsi preparate a proteggersi o essere protette. Qualunque siano le modalità reattive violente, immediate o posticipate nel tempo, la non accettazione della rottura del legame da parte della donna diventa spesso il trigger per un’ulteriore escalation violenta fino alla reazione omicidaria.
Le politiche preventive devono pertanto essere organizzate con molta cautela e sensibilità, specie nei casi in cui l’individuazione dell’IPV avviene nelle relazioni affettive durature e particolarmente conflittuali e litigiose in cui, se da un lato incoraggiare la donna ad interrompere il legame affettivo può costituire un primo passo verso la conquista dell’autonomia e una condizione di tutela per sé, i propri figli e familiari, dall’altro può rischiare di suscitare reazioni ancora più violente ed estreme da parte dell’uomo, che percepisce nel distacco e nella rottura del rapporto un affronto personale intollerabile. Questi aspetti non sono da trascurare, in quanto le componenti narcisistiche che trovano espressione nel rancore, nel pensiero ruminativo, nel sentimento di vendetta, possono spingere l’uomo ad agire secondo modalità differenti, mascherate, ma altrettanto pericolose.
“Ho pensato a quanto sia sgradevole essere chiuse fuori; e ho pensato a quanto sia peggio, forse, essere chiuse dentro[11]”
Virginia Woolf
Conclusioni
L’Intimate Partner Violence è l’esito di un processo che consuma il legame affettivo e che distrugge la persona, la sua autonomia, la sua dignità, chiudendo la vittima dentro una gabbia relazionale.
È dal contesto specificatamente intimo di questa forma di violenza che si deve partire per migliorare gli sforzi preventivi e per lavorare in sinergia con le Istituzioni e promuovere piani di intervento preventivi della violenza e di sostegno mirato alle vittime. Questo costituisce solo il punto di partenza in quanto tutti noi siamo consapevoli che la violenza si manifesta in forme eterogenee, sottili e spesso anche anonime. Pertanto gli interventi devono essere diversificati a seconda delle vittime coinvolte, dei tempi e dei modi con cui la violenza viene perpetrata e subìta. Lavorare al fine di promuovere benessere e tutelare la salute psicologica delle persone, delle donne e degli uomini, significa anche intervenire per modificare quella cultura condizionata da pregiudizi, intrisa di sessismo sottile e caratterizzata da discriminazione e ingiustizia sociale.
In quanto professionisti, le Psicologhe e gli Psicologi hanno un compito importante per sviluppare una cultura relazionale del rispetto; per informare e formare, a scuola e nelle università, le giovani generazioni sull’importanza di sviluppare relazioni condivise, responsabili, consenzienti, arricchenti e costruttive.
Parlare di pari opportunità, di integrazione sociale e di solidaretà significa poter dire che si sta lavorando in questa direzione.
Georgia Zara, Ph.D
Professoressa Associata di Psicologia criminologica e Risk assessment, Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Torino.
Vice-Presidente dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte.
Per saperne di più
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Zara, G., Veggi, S., & Gino, S. (2020). Note di Ricerca – Intimate Partner Violence: La tipologia della relazione e l’intimità affettiva nelle dinamiche interpersonali violente. Giornale Italiano di Psicologia, 2, 627−635. DOI: 10.1421/9788
[1] https://femminicidioitalia.info/lista/2020
[2] Council of Europe (2011). Council of Europe Convention on preventing and combating violence against women and domestic violence, Istanbul, 11 Maggio 2011. Consultabile al sito: https://www.coe.int/en/web/conventions/fulllist/-/conventions/treaty/
[3] Nel 2019 è entrata in vigore la Legge n. 69 – “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e alle altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere” – denominata anche Codice rosso. La legge è intervenuta a diversi livelli:▪ Sul maltrattamento contro i familiari e conviventi (ex art. 572 c.p.) prevedendo un inasprimento della pena; una fattispecie aggravata speciale, la cui pena aumentata fino alla metà, qualora il delitto venga commesso in presenza o in danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di persone con disabilità, ovvero se il fatto sia stato commesso con armi. Un aspetto rilevante da sottolineare è che il minore che assiste ai maltrattamenti, viene sempre considerato come persona offesa del reato. ▪ Sul reato di atti persecutori (art.612-bis c.p.) inasprendo la pena da 1 anno a 6 anni e 6 mesi di reclusione.
▪ Sul reato di violenza sessuale (artt. 609-bis e ss. c.p.) prevedendo un inasprimento della pena.
▪ Sul reato di atti sessuali con minore (art. 609-quarter c.p.) prevdendo un aumento della pena fino a un terzo qualora gli atti siano stati commessi con minori di 14 anni in cambio di denaro o di qualsiasi altra utilità.
La legge ha anche introdotto nuove fattospecie delittuose:
▪ Il delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (nuovo art. 583-quinquies c.p.).
▪ Il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate (c.d. revenge porn, inserito all’art. 612-ter c.p.).
▪ Il delitto di costrizione o induzione al matrimonio (art. 558-bis c.p.).
▪ Il delitto di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 387-bis).
[4] United Nations Office on Drugs and Crime (2018). Global Study on Homicide. Gender-related killing of women and girls. Vienna, Austria: Division for Policy Analysis and Public Affairs United Nations Office on Drugs and Crime.Cfr. anche World Economic Forum (2019). The Global Risks Report 2019 (14th ed.). Cologny/Geneva Switzerland: World Economic Forum, in partnership with Marsh & McLennan Companies and Zurich Insurance Group.
[5] https://www.eures.it/eures-91-donne-vittime-di-femminicidio-nel-2020-uccisa-1-donna-ogni-3-giorni/
[6] https://www.eures.it/eures-91-donne-vittime-di-femminicidio-nel-2020-uccisa-1-donna-ogni-3-giorni/
[7] Office for National Statistics (2020). Domestic abuse during the coronavirus (COVID-19) pandemic, England and Wales: November 2020. https://www.ons.gov.uk/peoplepopulationandcommunity/crimeandjustice/articles/domesticabuseduringthecoronaviruscovid19pandemicenglandandwales/november2020 Cf. https://www.euronews.com/2020/03/28/domestic-violence-cases-jump-30-during-lockdown-in-france
https://www.unwomen.org/en/news/in-focus/in-focus-gender-equality-in-covid-19-response/violence-against-women-during-covid-19
[8] Il campione coinvolto in questo studio pilota è stato selezionato dal più ampio campione del progetto SORAT (Sex Offenders Risk Assessment and Treatment) (Zara, 2018).
[9] “The eyes of others our prisons; their thoughts our cages” – Virginia Woolf (1906-1941/1993). An unwritten novel. In Selected short stories (p. 31). London: Penguin Books.
[10] Si rimanda all’articolo scientifico per i dettagli sugli aspetti metodologici della ricerca.
[11] “I thought how unpleasant it is to be locked out; and I thought how it is worse, perhaps, to be locked in”. From Virginia Woolf (1928). A room of one’s own, pp. 27-28. London: Penguin Books.