La cronaca politica di queste ultime settimane descrive il bonus figli quale “manovra ponte” verso l’Assegno Unico destinato dal 2022 alle famiglie con figli/e, come previsto nel Family Act (il Disegno di Legge approvato dal Consigli dei Ministri ad aprile 2021).
Si tratta della prima delle misure volute dalla Ministra della Famiglia e delle Pari Opportunità Elena Bonetti, che nel Family Act ha inserito diverse ipotesi di intervento: la revisione dei congedi parentali, gli incentivi al lavoro femminile attraverso la facilitazione della conciliazione (e dell’utilizzo dello Smart Working), la promozione della partecipazione dei minori alle attività educative e di apprendimento anche non formale, le detrazioni fiscali relative alle spese per la casa delle giovani coppie o il sostegno agli studi per ragazzi e ragazze (università compresa).
Un plauso va sicuramente al fatto che, con questo disegno di legge, pare si investa finalmente anche sulle famiglie del ceto medio, finora tendenzialmente escluse dai diversi benefici: anche se servirà del tempo per capire quanti nuclei famigliari potranno beneficiare davvero della misura e per quale quantità di denaro (30,00 euro non sono 167,00), visto che a differenza del “modello francese” qui si prende in considerazione l’ISEE e non il solo reddito.
Va però sottolineato come con un progetto di questo tipo si perda (ancora una volta) l’occasione di ripensare il welfare pubblico italiano (e proprio ora che col P.N.R.R. i fondi per le infrastrutture sociali si sarebbero potuti richiedere in modo ingente), da troppo tempo riconosciuto come “mediterraneo familistico assistenzialista”, e che invece sempre più dovrebbe divenire “welfare civile” (secondo la definizione di Zamagni, 2015), ossia una realtà in cui non è più lo Stato da solo ma è l’intera società – tipicamente anche attraverso le realtà del Terzo Settore – a farsi carico di spese altrimenti insostenibili. Nella prospettiva di poter finalmente realizzare quel welfare di prossimità, territoriale ed inclusivo, che contempli le tappe del ciclo di vita, gli eventi e i bisogni che lo caratterizzano (oltre alle emergenze), come dimensione di cui farsi carico sistematicamente, attraverso la prevenzione, prima ancora che con l’intervento.
Come la psicologia sociale e di comunità ha da molto tempo dimostrato, distribuire denaro (con tutti i caveat necessari su chi ha diritto al bonus, su chi rimarrà svantaggiato rispetto alla situazione attuale, su quante saranno davvero le famiglie che vedranno un mutamento sostanziale nella loro situazione economica complessiva etc.) è infatti diverso, in termini di obiettivi ma anche di risultati, dal costruire servizi alla persona.
I servizi – pubblici, coordinati, monitorati, distribuiti in modo omogeneo e in questa prospettiva messi in rapporto anche con il Terzo Settore – capitalizzano infatti risorse, competenze, qualità e legami con il territorio. E, non ultimo, offrono posti di lavoro per le donne (e i pochi uomini) attualmente già formati nelle professioni della cura: in particolare se consideriamo che sono state proprio le donne che lavoravano nei servizi a subire la più grave perdita di lavoro a causa della pandemia, ma anche che l’allocazione di risorse economiche prevista dal PNRR creerà numerosi posti di lavoro – e questo è ovviamente un bene -, ma in ambiti – economia green e digitalizzazione – in cui le donne per tipologia di competenze sono ancora molto poco rappresentate.
Inoltre i servizi, se pensati in questa prospettiva di welfare di prossimità, liberano davvero il tempo delle donne e dei caregivers tutti, favorendo al contempo relazioni, reti, cultura, valorizzazione delle risorse disponibili: tutte dimensioni che la psicologia conosce bene, nel loro ruolo di promozione del benessere e della salute. Al contrario, la distribuzione del denaro “a pioggia” rimanda ai singoli la necessità di individuare le risorse e i servizi, sperabilmente disponibili sul proprio territorio, e senza che un coordinamento ne garantisca la qualità.
Peraltro, come noto, i servizi, attraverso il loro operare, fungono allo stesso tempo da “osservatorio e monitoraggio” di quello che accade, rilevando i bisogni emergenti e cogliendo rapidamente le criticità. E su questo, se messi nelle condizioni di farlo, possono agire in ottica preventiva e coordinata.
Infine: l’investimento delle donne sul lavoro, così come la progettualità famigliare hanno bisogno di prospettive certe e a lungo termine, di riferimenti al tessuto sociale, alla comunità, alle risorse. Lasciare sole le donne, non investire sulla condivisione dei carichi di cura tra i partner con progetti dettagliati e realizzabili (che coinvolgano anche la complessiva ri-organizzazione del mondo del lavoro per uomini e donne), rinviare la ricerca di soluzioni alle sporadiche iniziative individuali e private (la cui continuità – e talvolta qualità – sono difficili da monitorate) rischia di non produrre gli effetti di cambiamento sociale che il Family Act e l’Assegno Unico dichiarano di perseguire.
Elisabetta Camussi